Fahrenheit 11/9 – Recensione

È il 7 novembre 2016, mancano due giorni alle attesissime elezioni presidenziali statunitensi: secondo tutti i sondaggi, la candidata democratica Hillary Clinton ha un vantaggio schiacciante sul repubblicano Donald Trump. È tutto pronto per la grande festa per l’elezione della prima presidente donna della storia degli Stati Uniti, colei che diventerà la donna più potente del mondo. Ma succede qualcosa di strano: a vincere è quell’altro.  Sono le prime immagini di “Fahrenheit 11/9”, l’atteso documentario del regista e attivista Michael Moore (in sala dal 22 al 24 ottobre) che racconta tutte le circostanze che, a suo dire, hanno portato all’ascesa di Donald Trump alla presidenza.

Il tycoon, però, si riduce a poco più che una comparsa: la spietata critica di Michael Moore è rivolta soprattutto alla classe dirigente del partito democratico, reo di non aver compreso i problemi dei lavoratori – dagli insegnanti alla classe operaia – e del paese reale, che deve fare i conti con politici senza scrupoli che avvelenano l’acqua pur di trarne un vantaggio per sè e per le potentissime lobby che finanziano le loro campagna elettorali.

Quello che era atteso come il più duro degli attacchi sferrati a Trump, in realtà si traduce in un collage che sembra non avere un filo logico: Michael Moore mette nel frullatore troppi spunti, sui quali probabilmente avrebbe potuto realizzare un documentario ex novo, dalle primarie democratiche “pilotate” dall’elite politica per far vincere la Clinton a danno di Bernie Sunders, alla manifestazione degli studenti contro le armi (uno dei suoi pallini, vedi “Bowling a Columbine” con cui vinse l’Oscar), fino alle accuse di molestie sessuali che coinvolgono il presidente Usa.

Nonostante tutta la carne al fuoco, è chiaro che l’obiettivo di Michael Moore è quello di mostrare gli inquietanti parallelismi tra quanto è successo nella storia recente e la deriva nazionalista che ha travolto l’Europa nel secolo scorso: un paragone che a prima vista potrebbe sembrare forzato, ma che – visti i recenti rigurgiti razzisti – stimola una riflessione più profonda nello spettatore.

Monica Scillia