No time to die – Recensione

Cinque anni dopo aver arrestato Ernst Stavro Blofeld (Christoph Waltz), James Bond (Daniel Craig) si gode la “pensione” in Giamaica. Un vecchio amico, l’agente della CIA Felix Leiter (Jeffrey Wright), chiede il suo aiuto per salvare uno scienziato rapito, Waldo Obruchev (David Dencik). Sulle tracce dell’uomo, Bond incontra Nomi (Lashana Lynch), l’agente che ha ereditato la sua licenza, con cui si trova a dare la caccia al terrorista Lyutsifer Safin (un gotico Rami Malek), che in qualche modo sembra legato all’oscuro passato di Madeleine (Léa Seydoux), la donna che aveva fatto innamorare Bond.

No time to die – quinta e ultima avventura per Daniel Craig nei panni dell’agente segreto dopo Casinò Royale, Quantum of Solace, Skyfall e Spectre – evoca l’ossessione del tempo che passa e di quello che ci si lascia inevitabilmente alle spalle. Venticinquesimo film della saga,  No time to die si è fatto attendere 18 mesi: nonostante il film fosse pronto, la  MGM ha ritardato l’uscita a causa della pandemia. Il tempo passa anche per Daniel Craig, che non fa alcun tentativo di sembrare più giovane di quanto non sia e, nella sua ultima pellicola nei panni dell’agente segreto, mostra il volto vulnerabile di un eroe romantico che non ha paura di mostrare i suoi sentimenti.

Senza spoilerare (l’hashtag che accompagna la pellicola è #notimeforspoilers), No time to die è una serie di lunghi addii, a partire dalla lunga sequenza iniziale che culmina con il brano di Billie Eilish ed è dominata dalla presenza carismatica di Daniel Craig e Léa Seydoux. «Abbiamo tutto il tempo del mondo», dice James Bond alla sua Madeleine, mentre sfrecciano a bordo della Aston Martin DB5 sui cui erano partiti felici alla fine di Spectre in direzione Matera, dove 007 visita la tomba di Vesper Lynd – l’amante morta in Casino Royale nel 2006 – nel tentativo di “lasciar andare”. Eppure i fantasmi del passato tornano a cercarlo.

Così tanti elementi della saga di James Bond sono stati incorporati in altre serie, da Mission: Impossible a Fast and Furious, che per creare una pellicola originale e degna del personaggio di Ian Fleming c’è bisogno di qualche tocco di classe in più. Il regista Cary Joji Fukunaga riesce a confezionare un prodotto ricco di ritmo, tra spettacolari combattimenti e inseguimenti conditi dalla tagliente ironia di 007, senza dimenticare i fantastici gadget messi a disposizione dall’MI6 e il Martini agitato, non mescolato. Il vivace mix però non riesce a mascherare la tristezza di fondo che accompagna No time to die, che rende piena giustizia alla spinta emotiva dell’addio di Daniel Craig.

Una boccata d’aria fresca arriva da Ana de Armas, l’attrice che interpreta un’agente della CIA distaccata a L’Avana, che si rivela meno ingenua di quanto sembra. Gli sceneggiatori – oltre al regista, la squadra formata Neal PurvisRobert Wade e Phoebe Waller-Bridge – le concedono pochi minuti sul grande schermo, ma la sua Paloma un po’ surreale conquista lo spettatore.  Intensa e tormentata l’interpretazione di Léa Seydoux, mentre ci si aspettava qualcosa in più dalla scrittura dei personaggi di Rami Malek e di Lashana Lynch. Comunque, il franchise ha ancora tanto da dire: con l’addio di Daniel Craig – forse il migliore James Bond dopo Sean Connery – e la licenza di uccidere “ereditata” da una donna di colore (almeno in No time to die) è ormai lecito chiedersi se i tempi siano maturi per uno 007 declinato al femminile.
Monica Scillia