Ready Player One – Recensione

Una montagna russa perfettamente costruita per nerdoni, nostalgici o amanti della cultura pop, quindi circa il 50% di chi oggi ancora si ostina ad andare al cinema. Con Ready Player One, Steven Spielberg gira uno degli adattamenti più attesi degli ultimi anni: il romanzo da cui è stato tratto, già culto per almeno un paio di generazioni di videogiochisti, è stato opzionato quasi subito dopo l’uscita, nel 2011. I livelli di lettura sono così tanti da non scontentare anche il pubblico più generalista, che però potrebbe uscire frastornato a fine proiezione per la quantità smodata di rimbalzi e rimpalli nostalgici.
Il rollecoaster di Spielberg (e non solo metaforico, visto che le inquadrature su binario in tuffo sono frequenti) funziona in maniera semplice, come in una favola: il protagonista, la sua cumpa e la sua bella, il cattivo che pensa solo ai soldi, il grande vecchio che ha in serbo la ricompensa definitiva. L’altra grande linea di demarcazione del film è tra una vita consacrata al “FARE”, che può portare a essere schiavi in una “farm” telematica, e quella votata all’”ESSERE”, l’unico modo in cui la realtà (l’unico posto dove puoi mangiare un cibo decente) può diventare un luogo fantastico (data leak permettendo). Dal regista che ci ha insegnato a sognare portando i piedi a qualche palmo da terra (anche con una bici, dando qualche pedalata più vigorosa) e che ha girato buona parte dei film che “Ready Player One” omaggia, era il minimo sindacale, grazie Ste, la pagnotta l’hai portata a casa anche stavolta.

Ready Player One, il frullatone di Spielberg che omaggia la Gialappa’s

Al di là delle citazioni e degli omaggi espliciti (ad esempio la filmografia di John Hughes e il suo carico di commedia romantica adolescenziale, che è la vera struttura portante classica, cioè “tiziopiùomenonerdone-incontra-tiziachesembranerdona-peripezie-si piacciono-baciobaciobacio-visseroinsiemefeliciecontenti”) la storia può ricordare altri classiconi come Willy Wonka (invece del biglietto ci sono delle chiavi da reperire nel megavideogioco che fa da scenario principale, con un grande vecchio che alla fine è pronto a farti anche il trabocchetto per testare la purezza del tuo cuor), ma ha il suo perché anche il colpo di scena finale alla “Montgomery Brewster” (il nome del personaggio interpretato da Richard Pryor in “Chi più spende più guadagna”). Il paragone più ardito – chiedo perdono – è però con un film italiano: “Tutti gli uomini del deficiente”, pellicola che nel 1999 segnò lo sbarco sul grande schermo della Gialappa’s e delle loro voci fuori campo. Anche in questo caso si parte dal videotestamento di un creatore di videogiochi, che vuole lasciare la sua azienda in eredità tramite una gara, ma nel mondo reale. Coincidenze? Noi di Doppio Schermo crediamo di no.
Inutile sprecare termini entusiastici, è una pellicola che ti dà esattamente quello che promette, un frullatone messo in linea su una struttura classica su cui si basano la gran parte dei film presi a modello e citazione, una caramella per gli occhi coloratissima e volutamente troppo zuccherosa, ma il rischio di averne nausea è direttamente proporzionale alla carica di nostalgia che siamo disposti a mettere in gioco. Cinema, telefilm, fumetti, videogiochi, musica: quasi tutto ciò che è stato prodotto dalla fine degli Anni 70 a metà degli Anni 80 (chiaramente con una prevalenza quasi assoluta di prodotti culturali made in Usa) viene proiettato su schermo in circa due ore.
Gran finale e lieto fine assicurati dunque per mettere in chiaro la domanda alla base di ogni recensione seria, vale i soldi del biglietto? Sì, se la vostra idea di cinema è sedervi e rilassarvi per un paio di ore (che poi è UNA delle possibili idee di cinema, c’è bisogno di precisare che nessuno può arrogarsi il diritto di imporre la propria? Ah ecco).

Paolo Giannace