Chiamami col tuo nome – Recensione

Estate 1983, nella campagna della provincia di Crema: il 17enne Elio (Timothée Chalamet) trascorre la sua estate nella villa di famiglia, tra libri e pianoforte. Come ogni anno, il padre, un professore universitario, ospita uno studente straniero: Elio è profondamente colpito dalla bellezza e dalla disinvoltura di Oliver (Armie Hammer) e, tra passeggiate e nuotate, nasce un rapporto travolgente.

Dopo “Io sono l’amore” e “A Bigger Splash”, Luca Guadagnino chiude la sua trilogia del desidero con “Chiamami col tuo nome”, ambientato in un angolo d’Italia raramente visto al cinema – con una favolosa fotografia curata da Sayombhu Mukdeeprom, che restituisce la sensazione opprimente del caldo estivo – e tratto dal romanzo di omonimo di André Aciman, adattato da James Ivory. I dettagli rivelano l’estrema cura nel ricreare l’atmosfera di quegli anni, senza alcun intento nostalgico: lo zainetto Invicta e le Converse di Elio, le auto, le riviste in edicola, i manifesti elettorali e la radio che passa Battiato, parte di una colonna sonora dominata da tre brani di Sufjan Stevens. Sospeso in un microcosmo senza tempo, “Chiamami col tuo nome” è lento, dilatato: non succede nulla oppure succede tutto. Non è semplicemente un film sull’omosessualità – anche se forse è uno dei migliori titoli che tocca questo tema – ma è una sorta di romanzo di formazione per immagini, in cui il protagonista prende coscienza del proprio corpo come strumento di trasmissione del piacere, in tutte le sue forme e declinazioni, arrivando passo dopo passo alla piena accettazione di sè. Per questo, l’azione si concentra soprattutto sulla fisicità dei due protagonisti: sguardi intensi, mani che si intrecciano, corpi che si sfiorano, dialoghi appena accennati. Probabilmente Timothée Chalamet non vincerà l’Oscar al Miglior attore protagonista, ma la sua interpretazione di Elio, sensibile e intenso, gli vale una nomination. Ne ha fatta di strada anche il “big Jim” Armie Hammer, alle prese con l’interpretazione migliore della sua carriera. È il personaggio di Michael Stuhlbarg, invece, a pronunciare le parole più toccanti di tutto il film, quelle che ciascun figlio vorrebbe ascoltare dal proprio padre: «La maggior parte di noi non riesce a fare a meno di vivere come se avesse a disposizione due vite, la versione temporanea e quella definitiva, più tutte quelle che stanno nel mezzo. Invece di vita ce n’è una sola, e prima che tu te ne accorga ti ritrovi col cuore esausto», dice al giovane Elio, alle prese con una grande delusione. «Al posto tuo, se il dolore c’è, lo farei sfogare, e se la fiamma è accesa, non la spegnerei. Chiudersi in se stessi può essere una cosa terribile quando ci tiene svegli di notte, e vedere che gli altri ci dimenticano prima di quanto vorremmo non è tanto meglio. Rinunciamo a tanto di noi per guarire più in fretta del dovuto, che finiamo in bancarotta a trent’anni, e ogni volta che ricominciamo con una persona nuova abbiamo meno da offrire. Ma non provare niente per non rischiare di provare qualcosa… che spreco».

Monica Scillia