Guarda in Alto – Recensione

A volte ci sono storie a cui manca solo un piccolo, ma incredibilmente significativo, dettaglio per essere raccontate. Fulvio Risuleo, regista di “Guarda in Alto” (suo primo lungometraggio, terminato un anno fa ma distribuito solo adesso nei cinema), aveva ben chiara la trama e i personaggi del suo film, ma non aveva ancora trovato l’ambientazione ideale. Gli è bastato alzare lo sguardo per capire che i tetti di Roma, spesso vicinissimi tra di loro, così vicini da essere comunicanti, fossero il “posto giusto” in cui dipanare l’intreccio che aveva in mente . La sua idea era girare un road movie onirico e sono i proprio i tetti a dare al racconto l’atmosfera sospesa e sognante che Risuleo cercava. Teco (il protagonista, interpretato da Giacomo Ferrara, lo Spadino di “Suburra”) è il garzone di un fornaio che ogni giorno sale sul tetto del per una pausa sigaretta. Finché un giorno, in uno stormo nota un gabbiano che vola in maniera diversa dagli altri e precipita non lontano da lui. Teco salta di tetto in tetto per trovare la salma del gabbiano ed è quando la scopre che comincia il suo viaggio. Nel quale incontrerà una ridda di personaggi ben caratterizzati e descritti: una stravagante bambina sposata con una gallina di nome Carlo (la bravissima Alida Baldari Calabria, qui al suo debutto sul grande schermo, prima ancora di interpretare la figlia di Marcello in “Dogman”) e tutta la sua comitiva di bambini mascherati capeggiata dal Muto. Poi delle suore che fumano e scommettono (e no, Crozza/Sorrentino non c’entra), un apicoltore narcolettico, e la ragazza scesa dalla mongolfiera (l’attrice francese Aurélia Poirier) che lo trascina in mille peripezie appresso alle quali si snoda buona parte del film. Una storia che ricorda le altre grandi storie di viaggi già raccontate da letteratura, cinema e tv: il Pinocchio di Collodi, le avventure di Jules Verne (modelli a cui Risuleo ha dichiarato di ispirarsi), ma anche le produzioni di Terry Gilliam e quelle sognanti di Michel Gondry. Il cerchio della storia si chiude idealmente nell’ultima inquadratura, diametralmente opposta alla prima: con la telecamera che sale inevitabilmente in alto.

Alessandro Giannace