Sorry we missed you – Recensione

Dopo il crack finanziario del 2008, Ricky (Kris Hitchen) e sua moglie Abby (Debbie Honeywood) combattono contro i debiti, per restare a galla e garantire un futuro ai loro figli. Dopo essere passato da un lavoro salutario all’altro, Ricky decide di lavorare come corriere per una ditta in franchise, per dare una svolta alla propria vita e maggiore stabilità economica alla propria famiglia. Anche Abby svolge un lavoro fisicamente ed emotivamente pesante: come assistente domiciliare, è in giro tutto il giorno per far visita ai pazienti e sacrifica la sua auto per permettere a Ricky di acquistare il furgone che gli servirà per le consegne. Il loro matrimonio sembra forte, ma quando il lavoro comincia a fagocitarli – e Seb (Rhys Stone) comincia a marinare la scuola e a cacciarsi nei guai – la loro vita è sul punto di implodere.

Ken Loach si ispira al bigliettino che i corrieri lasciano sulla porta quando non trovano nessuno in casa per il suo ultimo lavoro, “Sorry we missed you”, un ritratto brillantemente scritto da Paul Laverty sull’impatto della gig-economy sulle famiglie della classe media. Ricky intravede un’opportunità per diventare “il padrone del proprio destino”, un lavoratore autonomo in franchising, libero dalla schiavitù salariale (“Ci sono solo tasse”, gli ripete il suo caposquadra) in un coraggioso nuovo mondo lavorativo in cui tutto “è una tua scelta”. E’ un lavoro duro, certo, ma sulla carta, Ricky può scegliere quando lavorare: è imprenditore di se stesso (“Non lavori per noi, lavori con noi”).
E’ tutta una bugia: a essere cancellate non sono le tasse, le gerarchie, gli orari di lavoro. A Ricky vengono negati i diritti fondamentali dei lavoratori. Fin dall’inizio, lo spettatore ha la sensazione di annaspare nelle sabbie mobili insieme al protagonista, perchè i costi di questa “libera professione” iniziano immediatamente ad accumularsi. Per prima cosa c’è il furgone, che richiede un deposito di 1.000 sterline (Abby accetta a malincuore di vendere la propria auto, nonostante le serva per spostarsi continuamente tra appuntamenti troppo brevi con anziani e malati, in cui cerca di rispettare sempre la sua regola d’oro: “Trattali come se fossero la tua mamma”). Ricky si rimbocca le maniche e comincia a lavorare sodo: durante le consegne viene attaccato dai cani e insultato dai clienti. Pur di rispettare i tempi strettissimi delle consegne, parcheggia in doppia fila e non riesce neanche fermarsi. Cominciano ad accumularsi le sanzioni per i ritardi, per le assenze, persino per la merce che gli viene rubata quando viene picchiato dai rapinatori e finisce all’ospedale. Ancora più devastante è l’impatto della nuova schiavitù lavorativa per la vita familiare: Ricky ed Abby trovano vengono fagocitati dal lavoro, sono incapaci di trascorrere il tempo necessario con i loro figli che sembrano alla deriva: Seb arriva allo scontro con il padre, Liza Jane scoppia in lacrime perché vuole che le cose tornino com’erano prima. A fare da sfondo a questo dramma, sono gli stessi cieli grigio ardesia di Newcastle di “Io, Daniel Blake”, a cui “Sorry we missed you” sembra legato a doppio filo: le vecchie file di case a schiera, gli stabili condominiali e il centro città con la sua architettura classica.
Impossibile non empatizzare con i protagonisti di “Sorry we missed you”, che vengono descritti con dovizia di particolari: i dettagli restano impressi nella mente, come la bottiglia per fare pipì che viene consegnata a Ricky da un “collega” o la canfora che Abby si tampona sotto le narici prima di entrare nella casa di un ammalato, per attutire il cattivo odore. Come sempre, Loach ha girato il film in ordine cronologico: “Gli attori non sapevano come sarebbe andata a finire la storia. Ogni episodio era una scoperta per loro”. Gli autisti del film sono quasi tutti autisti o ex autisti. L’effetto è uno straordinario realismo delle loro interpretazioni (la piccola Liza Jane che scoppia in lacrime, dopo aver cercato di risolvere i conflitti tra il padre e il fratello, è un pugno nello stomaco).
“Il mercato non si interessa della nostra qualità di vita, è preoccupato solo di fare soldi e le due cose non sono compatibili. I lavoratori sulla soglia della povertà, come Ricky, Abby e la loro famiglia, pagano il prezzo”, spiega Loach. “Ma alla fine tutto questo non conta, a meno che il pubblico non creda alle persone che vede sullo schermo, non le abbia a cuore, non sorrida con loro, non condivida i loro problemi”.

Monica Scillia