L’Uomo che Uccise Don Chisciotte – Recensione

Quand’è che abbiamo rinunciato ai nostri sogni per arrenderci alla realtà? E nel vendere sogni e talento per denaro, ci abbiamo guadagnato? Quali effetti – anche nefasti – hanno i libri, i film e le opere d’arte in genere sulla vita reale? Intorno a questi interrogativi ruota “The man who killed Don Quijote” (per gli amici TMWKDQ), il film che Terry Gilliam ha impiegato 30 anni a finire, con in mezzo tanti di quegli impicci che la metà sono bastati a tirarne fuori un documentario (“Lost in La Mancha”, del 2002). Oggi il progetto incompiuto “è la mia vita, sono un morto vivente!”, ha detto scherzando e in italiano il regista.
Trenta anni dopo, non perdiamoci in ulteriori arabeschi e svolazzi. Fra la prima sceneggiatura e quello che vediamo oggi sullo schermo tanto è cambiato: la base è rimasta il Don Chisciotte di Cervantes, lo sviluppo – come ha spiegato lo stesso Gilliam – è stato di arrivare a un film completamente diverso, con l’intelaiatura del film arrivata solo tre anni fa. “Mi ritengo un mistico – ha spiegato il regista – una volta avuta l’idea il film era già scritto, solo che sono stato molto lento a buttarlo in pagina”. Esistono solo sette storie e un’infinità di modi di raccontarle. Qualcuno – soprattutto sua moglie – accusa Gilliam di fare sempre lo stesso film, ma non è per forza un male: anche ai Ramones veniva rinfacciato di suonare sempre la stessa canzone, ma bisogna saperlo fare per restare nel cuore di chi legge/guarda/ascolta.
TMWKDQ sceglie di raccontare la storia di un ex golden boy della macchina da presa, finito a girare spot pubblicitari e che prova il colpo grosso a Hollywood girando un Don Chisciotte in Spagna: un uomo di talento che ha tradito se stesso e che si ritroverà a dover fare i conti con quello che ha creato, anche inconsapevolmente, con la sua opera prima, un “Don Chisciotte” girato dieci anni prima.
Il film che aveva quasi dimenticato gli capita in mano durante una cena, al termine di una giornata nera, in piena crisi di idee, grazie a un gitano “ex machina”, che più volte tornerà a sbrogliare o a intessere la trama. Il giorno dopo deciderà di tornare sui luoghi usati per il film di dieci anni prima, nel paesino che – guarda un po’ – si chiama Los Sueños e che dista poche curve dal set hollywoodiano. Cosa hanno creato i suoi “sueños”? Il risveglio di un Don Chisciotte, adesso rinchiuso in un baraccone lercio e polveroso, con la realtà che ha avuto il sopravvento, ma che di lì in avanti ingaggerà una lotta serrata con la fantasia.
Duello che è anche tra i due co-protagonisti, Jonathan Pryce e Adam Driver, perfetti nei ruoli e autori di battibecchi comici, tragici, drammatici, crudeli, teneri, dolcissimi.
“Chisciotte non muore mai, non può morire”, come un demone o un fantasma che si impossessa di volta in volta di un corpo ospite (ma in maniera più sgangherata, come ogni film di Gilliam prevede). Da qui il grande balzo nell’avventura picaresca, nel reinventare le gesta di un cavaliere errante ma ai nostri giorni, tra clandestini, oligarchi russi, tesori che si trasformano in oro degli sciocchi, digressioni, viaggi nel tempo, amori ritrovati e mai perduti, critiche e satire a Trump e ai fanatici religiosi (e per chi di Gilliam ama ricordare i suoi trascorsi nei Monty Python c’è anche una sorpresa, che nessuno si aspetta, o forse sì?).
“I registi hanno la responsabilità di far pensare le persone in modo responsabile, o irresponsabile, che è anche più interessante”, ha detto ancora Gilliam, nel film la responsabilità si scarica tutta sulle spalle del co-protagonista, che come tutti è “sia Sancho che Don Chisciotte, sei tu a decidere, dipende se vuoi una vita più noiosa o più emozionante”. E non dovremmo preoccuparci troppo delle scelte sbagliate, perché “anche il fallimento è importante”, anche andare dietro a un progetto per 30 anni, anche se si rischia di lasciarlo non finito, anche se tutti intorno sono convinti che questo è il migliore dei mondi possibili e che è inutile pensare oltre, immaginare, andare incontro a dei mulini a vento o a un tramonto che può accecare. Perché il vero assassino di Don Chisciotte è chiunque pensi che non ci sia alternativa.

 

Paolo Giannace